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Tra i dimenticati, la sorte peggiore tocca alle donne

The New Humanitarian (TNH) 06.05.2020 Contributor (Name withheld for security reasons) Tradotto da: Jpic-jp.org

Per Nyaneng Chuol, incinta di quattro mesi, le restrizioni di Covid-19 significano essere confinata in un campo con un ex marito che l'abusa, spesso ubriaco e sempre più esigente. E questa è la sorte di migliaia di sud-sudanese che sono fuggite dalle loro case durante la guerra civile. "Ho paura perché non riesco a tenergli testa, e ora non ci sono dei buoni servizi medici", afferma questa mamma di 30 anni con quattro figli. COVID-19 porta con sé abusi e altre paure per le donne sfollate del Sud Sudan

Chuol è fuggita dalla sua città natale di Bentiu, al nord del paese, quando scoppiò la guerra nel 2014, e si trova in un campo protetto dell'ONU a Juba, la capitale. Non c'è un blocco ufficiale nel paese. Tuttavia, c'è il coprifuoco dal crepuscolo all'alba, le attività non essenziali, come eventi sportivi e servizi religiosi, sono chiuse e l'entrata ed uscita dei campi gestiti dall'ONU sono spesso limitate.

Ora, dice Chuol, il suo ex marito passa la maggior parte del tempo a bere con gli amici già che non possono più uscire dal campo a lavorare. Le restrizioni significano, inoltre, che ci sono meno persone per i servizi umanitari a cui rivolgersi se il marito l'abusa e teme che questo accadrà sempre più di frequente adesso che beve di più.

L'ex coppia vive separatamente nel campo, ma si vedono regolarmente a causa dei figli. Chuol afferma di essere costantemente picchiata. Ai primi di aprile, il suo ex marito l'ha presa a botte quando è andata a chiedere soldi per sovvenire ai bambini.

Chuol e altre donne che vivono nei ristretti campi gestiti dall'ONU nel Sud Sudan, conosciuti come siti di protezione per civili, temono che la pandemia le abbia rese più vulnerabili ai partner violenti e abbia diminuito le opzioni già scarse che avevano per ottenere aiuto.

C'è chi teme che se le misure di blocco continuano potrebbero causare un aumento di matrimoni infantili, poiché le famiglie non essendo in grado di lasciare i campi per guadagnarsi da vivere, devono cercare altri mezzi per ottenere risorse, ed una potrebbe essere il matrimonio delle figlie.

Le segnalazioni di violenza di genere sono aumentate in molti paesi dall'inizio della pandemia, secondi i dati provenienti da posti come la Francia o Singapore, dove si monitora il numero di chiamate alle linee aperte per gli abusi domestici. Gli analisti stimano che sei mesi di misure di blocco potrebbero comportare un aumento di 31 milioni di casi di violenza di genere (CVG - Vedi La violenza domestica sommersa durante l'emergenza coronavirus).

Un problema trascurato

Già molto prima che la pandemia arrivasse nel Sud Sudan all'inizio di aprile, le organizzazioni umanitarie avevano notato che la violenza sessuale e di genere non aveva la priorità necessaria nei programmi di risposta umanitaria.

Circa il 65% delle donne e ragazze nel Sud Sudan ha subito violenze fisiche e / o sessuali durante la propria vita, e circa un terzo delle donne ha subito queste violenze da parte di non-partner, spesso durante attacchi o raid militari, secondo l'UNICEF.

E' difficile, tuttavia, ottenere dati attendibili sulla violenza di genere nel Sud Sudan, in particolare durante le limitazioni imposte per la pandemia. Anche in tempi più normali, gli abusi spesso non vengono denunciati e le donne hanno poche o nessuna infrastruttura per segnalarli.

Circa la metà delle donne del Sud Sudan che subiscono violenza non lo racconta a nessuno né cerca aiuto medico o psicologico, secondo uno studio dell'International Rescue Committee. Ciò è dovuto alla stigmatizzazione, all'accesso estremamente limitato dei servizi e alla disgregazione dello stato di diritto con l'impunità che ne consegue. "La cultura della vergogna, in particolare per quanto riguarda lo stupro, è così grave che molte donne temono che denunciare il crimine possa causar loro ulteriori ripercussioni, come essere costrette a sposare il loro stupratore", afferma il rapporto.

Dei 41,5 miliardi di dollari spesi per le risposte umanitarie tra il 2016 e il 2018, ad esempio, solo 51,7 milioni di dollari – meno del 0,2% - sono stati destinai alla prevenzione della violenza di genere contro donne e ragazze.

Nel Sud Sudan, da quando è scoppiata la guerra civile nel 2013, provocando anni di estrema violenza con ripetuti massacri e stupri di massa, i siti di protezione dell'ONU hanno offerto rifugio a circa 190.000 persone, di cui circa la metà donne e ragazze.

Gli scontri sono diminuiti per un accordo sulla condivisione del potere firmato nel settembre del 2018, ma le donne continuano a essere bersaglio di soprusi. Alla fine del 2018, in soli 10 giorni, furono violentate 125 le donne e ragazze.

I problemi di restrizione del Covid-19

Dopo che i test hanno dimostrato che i primi quattro casi confermati del Covid 19 nel Sud Sudan

avevano tutti coinvolto i membri dello staff dell'ONU, il governo ha limitato il movimento di alcuni membri del personale ONU come misura precauzionale per frenare la diffusione del virus, secondo un rapporto di sicurezza interna destinato agli operatori umanitari.

Chuol ed altri che hanno parlato con TNH tramite un collegamento telefonico hanno affermato che c'è stato un notevole aumento nella limitazione dei movimenti e nell'accesso alle risorse da quando furono confermati questi primi casi del virus. L'accesso al campo di Chuol è stato bloccato per diversi giorni e alcuni medici non sono stati autorizzati ad entrare. "Il campo è considerato a rischio per causa del coronavirus", ha detto Chuol, preoccupata che ci sia adesso meno personale addestrato per aiutarla in caso di problemi con il marito.

Se tra gli operatori umanitari, con la proibizione di entrare nei campi, vengono compresi gli addetti alla protezione, le provviste mediche e gli alimenti, i pericoli per le donne potrebbero diventare "ancora più pronunciati", ha avvertito Nicole Behnam, direttrice della sezione "Violenza e risposta della prevenzione" dell'International Rescue Committee. "La disperazione della fame si combina con un crescente potenziale di violenza".

Nyajuani Bol è fuggita nel 2013 verso un campo di protezione dell'ONU nella città nord-orientale di Malakal con i suoi cinque figli dopo che gli scontri cominciarono nella sua città natale di New Fangak. Tre membri della sua famiglia furono uccisi. Dall'arrivo di Covid-19, racconta, la polizia e gli agenti di sicurezza nazionale hanno picchiato, minacciato e derubato i civili che cercavano di entrare nel campo. Il 28 aprile, Bol afferma essere stata colpita alla schiena e sulle gambe perché accusata di avere il coronavirus. "Temo", ha detto, parlando a TNH per telefono, "che essendo donna, non ho potere e non posso fare nulla".

Anche se non ci sono casi confermati di Covid-19 a Malakal, le forze di sicurezza del governo stanno impedendo alle persone di entrare o uscire dal campo e lo fa pagare caro a chiunque ci provi.

Le restrizioni al movimento hanno reso difficile per Bol, una vedova, di nutrire i suoi figli. Prima del Covid-19, vendeva legna da ardere, che raccoglieva nella foresta. Ora che non è in grado di raccogliere la legna, non può assicurare ai suoi figli i tre pasti al giorno come prima, ma solo due.

Le restrizioni stanno causando anche la congestione negli ospedali e nelle cliniche. I pazienti che erano arrivati nel campo per cure prima del coronavirus non sono in grado di uscire e devono rimanere nelle cliniche. Quando cercò assistenza dopo essere stata picchiata alla fine di aprile, racconta Bol, la clinica non aveva più un letto disponibile perché provvedeva a curare a un numero di persone doppio del solito.

Come madre single, confessa di essere terrorizzata di contrarre il virus e di lascire orfani i suoi figli: "Se Corona arriva al campo adesso, con poco spazio e nessun posto per la quarantena e senza posti nelle cliniche, penso che sarà la morte per tutti".

Foto. Campo rifugiati (Juba - Jp)

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