Giustizia, Pace, Integrità del Creato
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Una Chiesa con porte e finestre aperte

https://www.alzogliocchiversoilcielo.com/ 21.12.2022 Daniele Rocchetti Tradotto da: Jpic-jp.org

Andrea Grillo è un teologo, docente di Teologia dei sacramenti e Filosofia della Religione a Roma e di Liturgia a Padova. È interessante riprendere questa intervista alla chiusura della 1° sessione del Sinodo in corso. Intervista di Daniele Rocchetti

Il tema del Sinodo metterà sul tavolo la questione del potere e delle sue dinamiche?

Questa è una delle idee più chiare che si stanno manifestando nell’attualità ecclesiale e nel dibattito culturale al di là della Chiesa, in quella che possiamo chiamare cultura comune. Bisogna reagire ad una sorta d’istinto d’autodifesa proprio della Chiesa. Quando la Chiesa sente parlare di potere dice “non mi riguarda, perché io mi muovo negli spazi del servizio”. Falso: l’esercizio dell’autorità vera, dell’autorità del Vangelo, dell’autorità del servizio, esercita un potere. Per perderlo magari, ma deve esercitarlo. Ora, nell’esercizio del potere si toccano tutta una serie di mediazioni che sono comuni, non specifiche solamente della Chiesa. Una riflessione su queste mediazioni è importante.

La prima mediazione in cui si esercita potere è il linguaggio. La Chiesa parla un linguaggio vecchio, che era giovane quando è stato formulato, era moderno, audace al tempo di san Tommaso, del Concilio di Trento, dei concili ottocenteschi. Oggi noi ripetiamo formule stanche. Non dobbiamo avere paura. Su questo Papa Francesco è molto franco e chiede di usare l’immaginazione, l’inquietudine e l’incompletezza. Non a caso utilizza queste tre sorprendenti parole. Ed è paradossale che le dica un Papa e non i teologi, i pastori, i laici. Noi dobbiamo dire le cose di sempre con parole nuove. È la grande intuizione di Giovanni XXIII, che aprì il Concilio Vaticano II sostenendo che aveva un’indole pastorale. Perché, affermò il Papa, una cosa è la sostanza della dottrina, del depositum fidei, ed altra è la sua formulazione, il suo rivestimento. Dobbiamo formulare il rivestimento dell’antica tradizione in modo nuovo, sorprendente, avvincente, appassionante. Ed esercitare il potere usando in modo nuovo il linguaggio.

E la seconda cosa?

La Chiesa deve uscire dall’autoreferenzialità, che normalmente è una conseguenza dei linguaggi vecchi. I linguaggi sono vecchi quando dicono solo se stessi. Nella Chiesa questa è una delle tentazioni di sempre, quella d’una Chiesa che non riesce più ad “uscire”. Bergoglio ha usato l’immagine ancora prima di diventare Papa. Però, non la “Chiesa in uscita” ma “Gesù in uscita”: dobbiamo permettere a Cristo di uscire dai muri che gli abbiamo costruito intorno. È una bellissima immagine: un “Cristo in uscita” ha bisogno di una Chiesa con porte e finestre aperte, che lasci uscire Lui ed entrare le vite degli umani.

E il terzo livello?

È strettamente istituzionale. Si usa il diritto canonico – concepito nel 1917 e rimaneggiato in parte nel 1983 – come se fosse la Bibbia. Smettiamola di ridurre tutto a questioni canoniche. Il diritto canonico ha una funzione essenziale ma non è né all’inizio né alla fine. Sta in mezzo, all’inizio ed alla fine ci stanno altre cose. Una Chiesa con sempre il diritto canonico all’inizio e alla fine è una Chiesa che parla un linguaggio autoreferenziale, che non comunica con la realtà. Tutto diventa più facile e realistico se facciamo entrare finalmente anche nella Chiesa il dei segni dei tempi di cui parlò Giovanni XXIII nell’ultima sua enciclica Pacem in Terris: le donne. Prima ancora che cominciassero i lavori sinodali, Papa Francesco, nel 2021, su questo ha compiuto scelte importanti.

Il ritardo dei teologi, dei pastori e dei laici. Quali sono le ragioni?

Sono molte e vengono un po’ da lontano ed un po’ da vicino.

Da lontano. Ad un certo punto nella storia della Chiesa, per ragioni comprensibili allora, certo non oggi, la paura del mondo moderno ha fatto arroccare la Chiesa sulla cultura acquisita. Era come se non avesse più bisogno di leggere la realtà ed avesse tutte le risposte anche alle domande non ancora poste. Era alla fine dell’Ottocento, primi del Novecento, il tempo cioè dell’antimodernismo. Noi siamo ancora oggi, dopo più di un secolo, figli di quella stagione.

È arrivato Papa Francesco a svegliarci perché eravamo convinti di stare bene dove stavamo, cioè dentro il nostro mondo. Pensavamo di non aver bisogno di uscire.

Prendiamo i preti. Si formano preti e teologi soltanto con discorsi autoreferenziali. Il seminario tridentino è nato come luogo di cultura. Il seminario di fine Ottocento, inizio Novecento è diventato invece un luogo nel quale si studiano solo le materie sacre. La letteratura – e non parliamo delle scienze – meno se ne fa e meglio è. I seminari italiani fino alla fine dell’Ottocento erano pieni anche di scienziati. Dopo d’allora, pochissimi preti studiano materie scientifiche in modo avanzato, per fare ricerca, facendo nascere il sospetto verso tutto ciò che è scienza moderna.

Poi ci sono le cause prossime. Dopo il Concilio, che è il grande disgelo dall’antimodernismo, sorge una sorta di nuovo antimodernismo degli anni Ottanta, Novanta e primi del Duemila. La Chiesa pronuncia dei grandi no: no ad interventi sull’ecclesiologia, sul ministero, sulla liturgia. Tutto viene bloccato perché tutto è già stato deciso nel passato. Papa Francesco, viene dal Sud America, un altro mondo rispetto all’Europa. È il primo papa non padre conciliare. Sente la responsabilità di chi è figlio del Concilio: scuote teologi e pastori che continuano a pensare la fedeltà in termini di immobilità. Francesco ha vissuto esperienze civili e religiose che gli hanno permesso di uscire da questa auto-rappresentazione un po’ caricaturale del Papa, del vescovo, del teologo, del pastore ed anche del laico. Finisce per andare contro una mentalità europea ed italiana che è invece convinta che per essere Chiesa cattolica si deve ripetere la Chiesa del secolo precedente.

La distinzione fra tradizione e tradizionalismo è quindi uno degli snodi attorno a cui una parte dei cattolici sta costruendo oggi barricate.

La tradizione c’è sempre stata. Il tradizionalismo è un prodotto della tarda modernità. La tradizione è un meccanismo umano, istituzionale ed ecclesiale, con il quale si garantisce che il nuovo sia in rapporto con il passato: è la garanzia che possano accadere cose nuove assimilate gradualmente, di generazione in generazione, permettendo al passato di fare spazio al nuovo.

Il tradizionalismo è uno dei tanti –ismi, il tentativo di rinchiudere la tradizione in un museo, invece di farla fiorire come un giardino. Si vuole garantirla sempre uguale anche se morta. Il tradizionalismo fa dell’eucarestia, del vescovo, della parrocchia oggetti da museo. Si pensa di garantirli facendoli rimanere sempre quelli, sempre uguali. Le preghiere sono sempre quelle, nessuno impara una lingua nuova, tutti parlano soltanto latino, e tutto è morto.

Si dice che il latino garantisce l’universalità della Chiesa: sì, ma per chi? Il latino, se è una lingua, bisogna capirlo, per poter mettersi d’accordo. Se le cose vengono scritte per tutti in latino, ognuno poi le capisce nella propria lingua: uno in inglese, l’altro in francese, l’altro in italiano e l’altro in tedesco. Il Concilio lo ha capito sessant’anni fa: “giochiamo l’universalità sulle lingue particolari”, non una lingua che non è più viva da quando Dante ha dichiarato che per fare poesia, per parlare della vita, bisognava usare il volgare. Era il 1300. La Chiesa ci mette qualche secolo in più. La Chiesa protestante ci arriva nel ‘500, la cattolica nel ‘900. Si può usare il latino per i documenti canonici, ma l’esperienza della fede non si fa più in latino. Il tradizionalismo vede il latino come una lingua intoccabile per custodire la fede: è uno dei tanti esempi.

Quali sono le aspettative riguardo al Sinodo?

Sono buone se il Sinodo sarà un’occasione per mettersi in ascolto. Una Chiesa in ascolto è una Chiesa che accetta la logica dei segni dei tempi. Una parola importante: i segni dei tempi! Vuol dire che nella storia succedono cose da cui la Chiesa ha da imparare.

Vuol dire che nella storia, ci sono cose che meritano attenzione? No! Per papa Giovanni - nel 1963! - i segni dei tempi sono qualcosa di diverso. Sono i popoli che hanno la stessa dignità, i lavoratori che hanno la stessa dignità dei datori di lavoro, le donne che hanno la stessa dignità degli uomini. Il mondo è andato avanti e ci sono oggi altri segni dei tempi da leggere: sono le questioni che riguardano la natura, il Creato, le nuove forme d’esperienza del sentimento, della relazione. Insomma, ci sono mondi che stanno cambiando e nei quali è possibile trovare elementi di male e di bene su cui imparare a discernere.

Ciò significa un confronto serio finalmente con la modernità?

I due Sinodi avviati - sia quello universale e sia quello proprio delle singole Diocesi - hanno la possibilità di mettersi in sintonia con questo bisogno di ascolto. Si debbono elaborare i segni dei tempi. La necessità dunque di lavorare sul linguaggio, sulle riforme istituzionali e sui diritti-doveri-doni dei soggetti. Questi sono i tre fronti su cui uscire dalle forme d’ancien regime che ancora gestiscono la Chiesa. A volte non ci rendiamo conto che confondiamo la tradizione ecclesiale con le forme tridentine o ottocentesche con cui si è gestito il matrimonio, le parrocchie, i rapporti con gli Stati. Erano buone soluzioni nei tempi trascorsi ma oggi fanno acqua da tutte le parti. Non si vede perché dobbiamo ancora tenercele, se non confondendo la normatività della parola di Dio e della tradizione con la normatività dei singoli passaggi.

Ci sono cose della tradizione che è bene che muoiano perché la tradizione continui. È sempre stato così, non è che ce lo inventiamo noi oggi.

Nella storia della Chiesa per lungo tempo non ci sono stati i seminari. Fu il Concilio di Trento a imporli. All’inizio fu un trauma perché c’era chi diceva: “Non si è mai fatto così, si è sempre fatto diversamente”. Il Concilio di Trento ha avuto il coraggio e l’autorità di dire: “No, i futuri preti devono fare il seminario”. Oggi questa soluzione non funziona più. Forse oggi non si dovrebbe fare il seminario per diventare preti. Leggiamo di Ambrogio, ma anche Agostino. Sono diventati preti per forza, li hanno presi, li hanno scaraventati in Chiesa e li hanno ordinati. Un modo violento che non accetteremmo, ma, nella storia, c’è stata anche una Chiesa così. Dunque non bisogna scandalizzarsi se si riforma il seminario, se si riformano le giurisdizioni delle Diocesi, i tribunali canonici… Sono tutte cose che passano, le loro forme storiche non sono definitive.

Che cosa significa per la Chiesa prendere la forma sinodale? La forma sinodale è una configurazione, una postura quantomeno insolita per la Chiesa d’Occidente.

Credo che significhi assumere il buono che c’è all’interno delle esperienze che la Chiesa ha fatto nel passato e fa nel presente. Fare i conti, discernendo, con quanto è stato determinato dalle rivoluzioni che hanno cambiato il mondo. Penso alla rivoluzione industriale e quella liberale, francese e americana. Attenzione ad un equivoco su cui scivoliamo nell’usare la parola Sinodo. Il Sinodo di cui parlano i padri tridentini e quelli che, in due giorni, si celebravano soltanto tra preti, negli anni cinquanta del secolo scorso non hanno molto da insegnarci. Il Sinodo di cui parliamo oggi è la forma classica ma ripensata con categorie nuove: come si esercita la libertà, chi vota, quali sono i temi di cui parlare.

Ci sono stati subito vescovi che hanno detto: “No, di questo non si deve parlare”. In realtà, se è un Sinodo, nessuno stabilisce prima di cosa si deve parlare. Su questo, papa Francesco è stato fin dall’inizio chiarissimo. Chiesa sinodale significa una Chiesa che si lascia insegnare dai mondi della democrazia, sempre incompiuta, ma nella quale ci si ascolta. Una Chiesa che si fa istruire da nuovi stili di gestione della realtà, di ascolto del Vangelo e di vicinanza a coloro che hanno più bisogno della parola evangelica. Una Chiesa capace di mettersi in postura sinodale diventa un luogo nel quale si ha bisogno dell’altro per essere sé stessi, prendendo congedo da un modello di Chiesa detentrice di un’autorità in concorrenza con quella dello Stato o delle Università. Un immaginario di cui siamo ancora vittime, del quale non è responsabile né il Medioevo né il Concilio di Trento ma l’Ottocento.

Un cambiamento di non poco conto…

Certamente. Attraverso lo stile sinodale, impariamo l’arte di essere Chiesa senza ricorrere alle forme d’esercizio del potere. E senza dipendere da forme d’identità e di relazione tipiche dell’ancien régime. Purtroppo la Chiesa cattolica spesso viene ancora identificata con la non-democrazia, con il non-consenso. Tante volte sentiamo dire: “Il Sinodo non è un parlamento”. Sì, però qualcosa dal parlamento dobbiamo impararlo: il consenso è fondamentale non per prendere le decisioni in senso assoluto, ma per capire come stanno le cose. Solo nel confronto si capisce davvero che cosa vuol dire oggi amare. E anche che cosa vuol dire oggi vivere insieme, che cosa vuol dire oggi lavorare insieme.

Cerchiamo di capire. La Chiesa non è una democrazia ma non può esimersi dall’ascolto e dal confronto. Come mettere insieme queste due istanze?

Qui si tratta di lavorare sulle istituzioni. La tentazione che oggi noi viviamo, sia nella Chiesa che fuori dalla Chiesa, è di pensare che se fai una nuova legge le cose vanno a posto. Le leggi da sole non cambiano le mentalità, i modi di vivere e di fare. Però è anche vero che se gli strumenti sinodali, i confronti e gli ascolti servono soltanto a maturare le coscienze, non si tiene conto che gli uomini reagiscono anche ad atti istituzionali, cioè a permessi, a divieti, a orientamenti, ad incentivi. Di questo la Chiesa deve prendere atto. Se noi discutiamo, parliamo, ma non prendiamo provvedimenti concreti d’apertura sul piano del ministero, se non adottiamo forme di consultazione del sensus fidei diverse dall’opzionalità, rischiamo di non incidere.

I codici canonici in fondo sono edulcorazioni di un sistema assolutamente monocratico, incapace di gestire la divisione del potere mentre nella Chiesa alcune esperienze di divisione del potere sono necessarie. Non è che non ce ne siano, ma sono soprattutto ad intra. Ad extra la Chiesa è assolutamente monolitica. Questo è un limite, perché parla un linguaggio vecchio di duecento anni. Il punto d’equilibrio è accettare che le norme fondamentali della vita della Chiesa abbiano qualcosa da imparare dallo sviluppo delle forme di vita e delle forme istituzionali degli uomini e delle donne moderne.

Provi a vedere, ad esempio, come si gestisce il caso di crimini commessi da uomini di chiesa, che siano preti o laici. Serve oggi un dialogo trasparente con la giustizia civile. Ma questo le norme non ce lo permettono, perché abbiamo costruito mondi giuridici ed istituzionali contrapposti a quelli dello Stato. Questo non regge più. E vale anche con quanto ha a che fare con il matrimonio, le forme di penitenza e molto altro. A prima vista, sembra una cosa aberrante, ma è sempre stato così: i passaggi sono sempre stati di confronto radicale con il mondo.

Riuscirà il Sinodo a dare voce e mettersi in ascolto di chi vive ai margini delle vicende ecclesiali?

Credo che lo possa fare, ho la speranza che lo faccia purché accettiamo di convertirci. Non parlo solo di conversione del cuore, che pure è fondamentale. Ma anche di convertire le mediazioni del cuore, cioè il nostro modo di parlare, di pensare, di costruire esperienze ecclesiali. A parlare con le parole bibliche si fa presto. È più difficile tradurle nel presente, perché siamo ancora legati agli orizzonti di senso di cento, centocinquant’anni fa.

Ad esempio, la parola omosessuale, tanti cristiani la associano immediatamente ad un vizio della castità. Se uno ragiona così, è handicappato nei confronti del reale, perché vede prima di tutto il peccato e non la persona. In questo caso ma potrei farne molti altri, le categorie con cui si pensa sono vecchie, non funzionano più. Essere omosessuale non è anzitutto - anche se a qualcuno può sembrare - peccare contro la castità. Questa idea è frutto di un mondo e d’una storia che abbiamo alle spalle ma che oggi non regge più e che emargina, lascia fuori.

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I commenti dai nostri lettori (3)

Bernard Farine 24.10.2023 Dans les débats sur le synode on fait souvent référence aux systèmes démocratiques modernes et il me semble qu'on pourrait aussi parler de la tradition africaine de la palabre ce qui nous décentrerait un peu de nos catégories occidentales.
Dario 30.10.2023 Grazie GP, Per questo articolo molto interessante e veritiero moderno ed audace.. specialmente quando il mondo almeno quello americano, in generale, confonde la parola Latino con popolazione e lingua di origine diversa ma quella di Roma , la lasciando la storia ( ed il Colosseo) in disparte..come se non fosse esistita.. ( diamo a Cesare cio che e .....a Dio ciò che gli compete) etc.. includiamo l 'italo americano che pensa di essere un anglosassone.. direi un articolo con molti risvolti se presi a dovere, positivi con sincerità e con spiritualita' ( con riflessione , e direzione, dello spirito santo innanzitutto) .. altrimenti Dio provvederà secondo i suoi "canoni"..io penso da ignorante..
Luc 08.11.2023 Vraiment intéressant à lire le texte d'A. Grillo. Puisse-t-il être entendu, comme tant de Chrétiens de la base ou de la périphérie, comme le dit le Pape François.