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La “Guerra dell’acqua”

Interris.it 16.07.2022 Manuela Petrini Tradotto da: Jpic-jp.org

L’acqua è già un bene conteso. Si pensi al giro d’affari che ruota intorno all’acqua in bottiglia. O ancora alla corsa delle grandi multinazionali per far proprie le maggiori riserve idriche mondiali. Intervista ad Alessandro Mauceri, segretario nazionale della Scuola Nazionale d'Ambiente e autore del saggio "Guerra all'acqua", sulla situazione in Italia. 

Le forti ondate di calore dei giorni scorsi hanno fatto tornare alla ribalta un problema che è italiano e globale. Quali sono le ragioni della crisi idrica nel nostro Paese?

Le ragioni sono principalmente tre. La prima è la gestione degli impianti di raccolta e distribuzione: oggi tutti i media parlano delle perdite copiose che, in alcuni casi, arrivano e superano il 50%, ma non è un problema recente: se ne parla da decenni. E, finora, poco o niente è stato fatto per risolverlo. Non bisogna dimenticare che le condutture (così come i bacini di raccolta) richiedono una manutenzione costante. Quando questa manutenzione non viene fatta, si arriva ad un punto di non ritorno, un momento in cui sono necessari interventi radicali che, però, richiedono grossi investimenti. Ora si parla del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), ma non bisogna dimenticare che non è la panacea di tutti i mali e, soprattutto, che in Italia il PNRR ha un costo anche per i cittadini. La gestione dei bacini di raccolta è un problema che la Scuola Nazionale Ambiente di Movimento Azzurro segnala da tanto tempo: senza rimuovere il limo che giace sul fondo di questi bacini la loro portata si riduce considerevolmente, anno dopo anno. La seconda causa della crisi idrica sono i cambiamenti climatici radicali che stanno riducendo la disponibilità di risorse di acqua potabile. Attenzione: a mancare non è ‘l’acqua’, a volte nemmeno ‘l’acqua dolce’, quella che manca è l’acqua per uso umano. Il terzo motivo, non meno importante, è che in Italia (come in quasi tutti i paesi sviluppati), manca completamente la cultura del ‘non sprecare’. Lo stile di vita degli italiani (come del resto degli europei e di molti altri paesi ‘sviluppati’) non tiene in alcun conto questo fattore importante. Due esempi. Il primo è l’abitudine di utilizzare acqua potabile per lo scarico del water: in pratica noi raccogliamo acqua dolce, la purifichiamo, la distribuiamo (perdendone circa la metà lungo il percorso) e poi la utilizziamo negli scarichi dei bagni. Si tratta di un paradosso che non trova alcuna giustificazione logica. Il secondo ‘spreco’ è legato allo stile di vita e alle abitudini alimentari. Da anni (per non dire da decenni) si sa che scegliere un certo stile di vita, una certa dieta è più salutare e comporta anche un impatto minore sull’ambiente. Da questo punto di vista l’Italia pare essere tra i paesi più avanzati: secondo diversi studi la dieta ‘mediterranea’ (non a caso è stata nominata patrimonio immateriale dell’umanità dall’UNESCO) non solo ‘fa bene’ ma consente anche un notevole risparmio enorme di acqua ‘virtuale’ (la quantità d’acqua necessaria per produrre un certo bene). Giusto per dare un dato: secondo alcuni studi tornare alla dieta mediterranea consentirebbe di risparmiare 1.400 litri di acqua virtuale al giorno a persona. Basta moltiplicare questo numero per gli abitanti dell’Italia e per 365 per capire quale sarebbe l’impatto di una scelta alimentare corretta sulle riserve idriche nazionali.

In mezzo all’emergenza siccità, dall’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), arrivano dati drammatici: la disponibilità dell’acqua nel trentennio che va dal 1991 al 2020 si è ridotta del 30%. Questa situazione è destinata a peggiorare per gli effetti del cambiamento climatico?

Stando alle valutazioni del modello idrologico BIGBANG di ISPRA, la disponibilità di risorsa idrica media annua, calcolata sul lungo periodo 1951–2020, ammonta a circa 141,9 miliardi di metri cubi, dei quali circa 64 miliardi vanno a ricaricare le falde acquifere. Questo dato, negli ultimi tre decenni, mostra un trend negativo. Ma non basta: mostra un peggioramento del 19% rispetto a quello del triennio precedente (1921–1950). Questo dimostra che la situazione attuale non è un fenomeno ‘straordinario’, legato ad una rapida evoluzione del clima, ma che si tratta di una situazione ben nota e il cui andamento è risaputo da decenni. Ma di questo nessuno si è curato di fare niente. Come abbiamo più volte ribadito (anche in occasione dell’IMRF dell’IOM/Nazioni Unite -International Migration Review Forum, International Organisation of Migration-, che si è tenuto a New York dal 17 al 20 maggio scorso) ci sono due tipi di emergenze: quelle improvvise e quelle che si generano nel corso di anni se non di decenni. Entrambe sono importanti. E per entrambe, i governi (specie quelli dei paesi sviluppati, la situazione non riguarda solo l’Italia, ma molti paesi europei e anche gli USA) dovrebbero attuare misure preventive adeguate. Ma non lo fanno. Il punto è che farlo è molto costoso. Quindi, in molti casi, invece che ‘fare’, si preferisce ‘studiare come fare’. Ecco quindi che tutti i paesi sono pieni di piani per le emergenze (anche le emergenze idriche) ma non fanno quasi nulla per prevenirle o per fronteggiarle. Ovvio che quando uno di questi eventi si manifesta o si raggiunge un livello critico non si può più rimandare. Per quanto riguarda la domanda di acqua in l’Italia, i dati forniti nel database European Environment Information and Observation Network (EIONET), basati sui dati trasmessi dall’ISTAT (Istituto nazionale di statistica), il prelievo totale medio annuo per l’Italia si aggira intorno 37,7 miliardi di m3. Confrontando tale valore dei prelievi con la risorsa idrica media annua disponibile, si capisce che l’Italia è in condizione di stress idrico. E di sicuro la situazione non migliorerà. Né nel breve né nel medio periodo.

In Italia la scarsità dell’acqua è provocata dalle ondate di calore e dalle ingenti perdite nel servizio di distribuzione dell’acqua potabile: un terzo si perde per strada. Che conseguenze ha questo problema?

Le conseguenze sono incredibili. Innanzitutto il dato di un terzo riguarda la media nazionale. Ma se si guarda alle molte grandi città italiane la percentuale di acqua perduta è molto maggiore: arriva al 50% e oltre. La prima conseguenza è che gli impianti devono essere dimensionati per una domanda molto maggiore di quella reale. Anche la quantità d’acqua trattata, depurata e messa in rete è maggiore. Questo significa maggiori costi per i cittadini, maggiori spese in termini di energia e molto altro ancora. A questo si aggiunge un aspetto del quale non si parla mai (o quasi). La maggior parte dell’acqua dolce consumata non è destinata all’uso civile ma ad uso agricolo: circa il 14% delle risorse idriche italiane viene utilizzato per uso potabile, più del 65% è prelevata per usi irrigui in agricoltura o negli allevamenti (il resto a uso industriale). Il riuso in agricoltura almeno di parte delle acque per uso urbano avrebbe grandi benefici. E’ importante dedicare attenzione anche al tipo di prodotti agricoli che si coltivano o allevano: alcuni richiedono quantità d’acqua ben maggiori (l’allevamento dei bovini richiede tantissima ‘acqua virtuale’). Importante anche il modo di produrre, si pensi alle produzioni intensive. Tutti temi noti da decenni: nel 2009, ad esempio, il Water Resources Group stimò un deficit idrico mondiale del 40% entro il 2030. Ma nessuno fece nulla: si preferì continuare a parlare solo di CO2. Anche in questo caso senza fare molto: a livello globale le emissioni hanno continuato ad aumentare, con conseguenze climatiche e ambientali non indifferenti. Anche sulle risorse idriche.

Lei è autore del saggio “Guerra dell’acqua”. Pensa che questo sia uno scenario plausibile in un futuro prossimo?

Non è plausibile, è già realtà. In diverse parti del pianeta sono già in atto scontri più o meno violenti per l’acqua. Si pensi al fenomeno dei water-grabbing che spesso accompagna il land-grabbing. Si pensi allo scontro tra i paesi per la gestione delle riserve di acqua dolce. Su questo, è bene fare una precisazione. A livello globale, poche delle principali fonti di acqua dolce ricadono all’interno dei confini di un solo paese. La stragrande maggioranza, sono ‘condivise’. In altre parole, attraversano i confini di diversi paesi. Esemplare il caso del Nilo, da sempre strumento essenziale per la vita in Egitto. Ma prima di arrivare in Egitto, il Nilo attraversa molti altri paesi. É bastato che uno di questi, l’Etiopia, decidesse di costruire su questo fiume una mega-diga per soddisfare il fabbisogno energetico del proprio paese (diritto più che legittimo) perché si arrivasse allo scontro. Anche armato. Solo l’intervento dell’ONU e dell’Unione africana (grazie alla Repubblica democratica del Congo, presidente di turno) finora ha evitato il peggio. In altre parti del pianeta l’acqua è usata per attaccare una fascia della popolazione: a Gaza, gli israeliani hanno razionato le riserve idriche destinate ai palestinesi fino al limite. Altre volte l’acqua diventa ‘strategica’: nel Mar Cinese Meridionale, la Cina ha letteralmente ‘costruito’ un gruppo di isole artificiali sull’acqua, per espandere il proprio controllo militare su questa zona ‘calda’. Anche in Italia è in atto una ‘guerra all’acqua’: da diversi anni sono in atto tentativi per privatizzare l’acqua.

L’acqua quindi non sarà più un bene pubblico ma un bene conteso?

L’acqua è già un bene conteso. Si pensi ai problemi nella maggior parte dei centri per la gestione dell’acqua in Italia, o al giro d’affari che ruota intorno all’acqua in bottiglia. O ancora alla corsa delle grandi multinazionali per far proprie le maggiori riserve idriche mondiali. Fenomeni che sono già più avanti di quanto si pensi. Popolazione in aumento, risorse idriche in diminuzione e infrastrutture colabrodo sono unite da un solo fattore sul quale gli speculatori sono pronti a scommettere: l’acqua. Una risorsa sul quale i grandi gruppi finanziari stanno già speculando con titoli come il S&PGlobal Water Index e il World Water Index. Bertrand Lecourt, gestore di Fidelity International ha dichiarato che “Non esiste economia senza acqua, non esiste economia sostenibile senza una gestione dei rifiuti, ma le aziende in questo settore rimangono relativamente inesplorate dagli investitori”. Parole che cozzano terribilmente con quelle della Dichiarazione universale dei diritti umani per la quale l’acqua è un diritto inalienabile dell’uomo. Ma fatta la legge trovato l’inganno: ecco, quindi, che alcuni speculatori senza scrupoli hanno già suggerito di considerare l’acqua bene inalienabile ma solo per la quantità necessaria alla sopravvivenza. Il resto, secondo loro, sarebbe campo aperto per speculatori e affaristi.

Quali saranno i Paesi che dovranno affrontare le maggiori problematiche per la carenza d’acqua?

Secondo i dati della Convenzione delle Nazioni Unite per la Lotta alla Desertificazione (UNCCD, UN Convention to Combat Desertification), il 25% della superficie terrestre è già fortemente degradata o sottoposta a elevati tassi di degrado. Si stima che i due terzi della terra africana siano già degradati, in parte o totalmente, e che il degrado del suolo colpisca almeno 485 milioni di persone, il 65% di tutta la popolazione africana. In America Latina, si stima che il 50% dei terreni agricoli sarà soggetto a desertificazione entro il 2050. Oltre a questo problema c’è poi quello della siccità ovvero la diminuzione della frequenza delle precipitazioni in rapporto alla media annuale in un certo luogo. La siccità è ritenuta grave quando la produzione agricola media cala del 10%, e catastrofica quando cala di più del 30%. Ebbene, nel corso degli ultimi decenni si è osservato un incremento nella frequenza e nell’intensità dei periodi di siccità. In alcuni paesi africani (Niger, Ciad, Etiopia, Eritrea, Somalia, Repubblica Democratica del Congo, Uganda, Angola, Mozambico e altri) meno del 50% della popolazione riesce ad avere accesso a una fonte d’acqua potabile sicura proprio a causa di prolungati periodi di siccità. Lo stesso in altri Paesi: in Papua Nuova Guinea, in Oceania, meno del 50% della popolazione ha accesso ad una fonte sicura di acqua. Anche in India, in Marocco e perfino in alcuni Paesi europei l’acqua è terribilmente inquinata. E poi Myanmar, Cambogia, Afghanistan, Tagikistan e Yemen: qui la percentuale della popolazione colpita da problemi legati all’acqua è tra il 25 e il 50%. Si tratta di paesi poveri, dove il reddito medio pro capite è tra i più bassi, ma dove le risorse naturali disponibili – a volte – non mancano, (di acqua dolce in alcuni di questi Paesi ce n’è abbastanza ma per vari motivi non è facilmente utilizzabile per uso umano). Le conseguenze sono tremende: senza acqua non è facile per un ragazzo andare a scuola perché spesso deve percorrere chilometri per portare pochi litri d’acqua a casa. Spesso le malattie ‘causate dall’acqua’ e quelle ‘portate dall’acqua’ (un tema trattato a fondo in ‘Guerra all’acqua’) rendono impossibile per questi ragazzi acquisire quel minimo di conoscenze che permetterebbe loro di avere un futuro una volta grandi.

Quali provvedimenti i governi devono mettere in atto perché l’acqua sia un bene pubblico?

Il primo e fondamentale sarebbe capire (e farlo capire a chi sull’acqua vuole speculare) che l’acqua non è un bene infinito. Con la popolazione mondiale che aumenta e le risorse di acqua potabile che diminuiscono (anche a causa dello scioglimento dei ghiacciai), non è più rimandabile l’adozione di politiche per evitare gli sprechi e l’utilizzo corretto di questa risorsa fondamentale. Il primo punto forse potrebbe essere proprio questo: comprendere l’importanza che ha l’acqua per la sopravvivenza dell’uomo sulla Terra. Senza petrolio, senza oro, senza grano e molti dei beni ‘primari’ oggetto di discussione e di speculazione in borsa si può vivere. Senza acqua no. Non si può vivere. Fino a quando non si comprenderà questo ci saranno sempre sprechi, crisi idriche e speculazioni. E ‘Guerre all’acqua’.

Vedi La “Guerra dell’acqua”  

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