Facebook e Google vogliono continuare a essere infrastruttura essenziale, editori e imperi della pubblicità mirata. Ma non possono essere tutte e tre le cose.
Le grandi aziende tecnologiche stanno affrontando una crisi esistenziale, ma stanno facendo di tutto per resistere e mantenere lo status quo. In particolare, Facebook e Google vogliono continuare a ricoprire tre ruoli: infrastruttura essenziale, editori e colossi della pubblicità mirata. Vogliono essere percepiti come piattaforme neutrali, cercando di apparire civicamente responsabili, e allo stesso tempo massimizzare la sorveglianza e il profitto della pubblicità. È una combinazione impossibile: quindi il governo deve costringerle a scegliere un nuovo modello di business. O meglio, deve sceglierlo al loro posto.
Facebook e Google occupano un ruolo politico senza precedenti. Il paragone più vicino nella storia americana è probabilmente il monopolio del telegrafo alla fine del XIX secolo, quando l’Associated Press e la Western Union unirono le forze per controllare sia le notizie che la rete attraverso cui le notizie viaggiavano. Facebook e Google sono simili a quel monopolio, ma combinando insieme il regime di sorveglianza degli stati autoritari e il modello di dipendenza dell’industria del tabacco. Non solo controllano il discorso pubblico, sorvegliano i cittadini e guadagnano incentivando paranoia, odio e menzogne; ma fanno anche profitti mantenendo il pubblico dipendente dai loro servizi. Le testate giornalistiche tradizionali dipendono da loro, e il loro flusso di ricavi viene direttamente sottratto a queste organizzazioni, che, se lasciate prosperare, potrebbero fornire il tessuto connettivo dell’informazione necessario alla democrazia. Inoltre queste aziende tecnologiche non sono soggette ad alcuna responsabilità democratica: pochi amministratori delegati decidono la forma del pensiero moderno e sono diventati di fatto i commissari dell’informazione negli Stati Uniti d’America.
Oggi, tutto lo spettro politico, riconosce la minaccia che queste aziende rappresentano per la democrazia. La domanda non è più se debbano essere regolamentate, ma come. “Il giorno della messas sotto controllo per il Big Tech è arrivato,” ha avvertito il deputato repubblicano Ken Buck, mentre la deputata progressista Alexandria Ocasio-Cortez sostiene che i monopoli tecnologici stanno uccidendo il giornalismo e sono “insostenibili a livello sociale ed economico”. Il governatore repubblicano della Florida Ron DeSantis sta promuovendo una legge che sanzioni le aziende tecnologiche che estromettono i politici, e la senatrice democratica Amy Klobuchar ha dichiarato che lo smantellamento di Facebook “è sul tavolo.”
Alcuni potrebbero sostenere che, man mano che emergono i loro abusi, questi giganti tecnologici potrebbero essere costretti a maggior competenza. Che l’innovazione dei nuovi arrivati potrebbe, da sola, condurre a un mercato decentralizzato e meno tossico. Ma questa teoria è stata smontata dall’inchiesta del sottocomitato antitrust della Camera, che ha mostrato come le grandi aziende tecnologiche costruiscono barriere attorno al proprio potere, distruggendo i concorrenti emergenti o acquistandoli o soffocandoli prima che possano rappresentare una minaccia.
Ridimensionare Facebook e Google è una proposta sostenuta da molti. Liberali e conservatori appoggiano la frammentazione di queste aziende affinché il loro potere straordinario non divori la democrazia. Ciò significa, ad esempio, separare YouTube da Google Search e da Google Shopping, che compete nello stesso motore di ricerca. Significa scindere Facebook da Instagram, WhatsApp, Messenger e dalle altre app affiliate. Il rapporto del sottocomitato antitrust del 2020 propone una legge sulla separazione strutturale che vieterebbe a Facebook o Google di possedere aziende produttrici di contenuti che competono sulle loro piattaforme.
Ma gli smantellamenti, per quanto cruciali, da soli non bastano. Qualsiasi riforma seria dei danni democratici causati da Facebook o Google deve iniziare costringendo queste aziende a servire l’interesse pubblico. Alcuni pensano che il modo migliore per farlo sia costringerle ad accettare il loro ruolo di editori.
The New York Times non può pubblicare calunnie in modo negligente, violare il diritto d’autore o ospitare annunci che violano il Fair Housing Act. Facebook e Google, invece, sono immuni da queste responsabilità grazie alla Sezione 230. Questa controversa disposizione del Communications Decency Act del 1996 tratta le aziende tecnologiche come semplici piattaforme, senza responsabilità editoriale, dando loro libertà di ignorare i danni che possono verificarsi attraverso le loro piattaforme. In pratica, vogliono avere la botte piena e la moglie ubriaca. Amtrak, ad esempio, permetterebbe a un truffatore di continuare a salire sui suoi treni per derubarti? Potresti provare a fare causa, se riesci a dimostrare che Amtrak è stata negligente. Ma non puoi farlo con YouTube, che usa la Sezione 230 come scudo.
Sostengo gli sforzi per abrogare parti della Sezione 230. In particolare, credo che qualsiasi azienda debba essere ritenuta responsabile per i contenuti che promuove, pagati o meno. Tuttavia, l’abrogazione da sola non risolve il problema del controllo centralizzato dell’opinione pubblica da parte di poche aziende tecnologiche. Facebook, ad esempio, potrebbe comunque decidere di classificare Occupy Wall Street come organizzazione terroristica, o bollare le critiche (o le promozioni) sull’uso doppio della mascherina come teoria del complotto, o decidere di penalizzare certi dibattiti politici nei suoi risultati di ricerca, sia per interesse personale, o perché pressione o per capriccio. L’abrogazione non cambia gli incentivi a promuovere contenuti conflittuali, non risolve la sorveglianza civica che esercitano sulla massa.
Ecco perché l’abrogazione della Sezione 230 sarebbe solo uno spettacolo marginale. La vera soluzione—seguimi—è far sì che queste aziende assomiglino di più alle piattaforme previste originariamente dalla Sezione 230; ovvero, costringerle ad assumere il ruolo di infrastruttura essenziale.
È ciò che gli Stati Uniti hanno fatto in passato quando beni o servizi privati sono diventati indispensabili alla vita pubblica—come strade e ferrovie—e in particolare per le infrastrutture di comunicazione. Le leggi statali del XVIII secolo imponevano alle compagnie telegrafiche di trattare tutti allo stesso modo. Alexander Graham Bell ottenne il brevetto per il telefono negli anni 1870; quando il brevetto scadde negli anni 1890, l’industria telefonica esplose. Nel 1910, il Congresso approvò il Mann-Elkins Act, regolando i fornitori di servizi telefonici come “common carriers” per via del loro ruolo centrale nella comunicazione. Erano ancora aziende private, ma con l’obbligo pubblico di non discriminare tra gli utenti.
Alcuni potrebbero dire che i social media e i motori di ricerca sono opzionali, non infrastrutture, più simili ai videogiochi che alle linee telefoniche. Ma questo punto di vista ignora la realtà. Sono infrastrutture perché una gran parte della società dipende da essi per connettersi. Le piccole imprese hanno bisogno di Facebook e Google per raggiungere i clienti. I politici li usano per comunicare con gli elettori. Per molti, queste piattaforme sostituiscono marciapiedi, uffici postali, linee telefoniche e piazze pubbliche, tutto in uno. Le testate giornalistiche sopravvivono o falliscono in base all’accesso al pubblico che queste aziende controllano.
Nella maggior parte delle leggi americane, le infrastrutture sono soggette a regole diverse rispetto agli altri beni di consumo. Sono trattate come servizi pubblici e regolamentate nell’interesse pubblico. Le aziende che gestiscono infrastrutture non possono far pagare prezzi diversi a persone diverse per accedervi. Le infrastrutture di comunicazione non possono spiare chi le utilizza. Il servizio postale, per esempio, non può aprire la posta e non può far pagare 5 dollari a un’azienda e 10 dollari a un’altra per spedire la stessa quantità di posta pubblicitaria. Le compagnie telefoniche possono applicare tariffe diverse in base al tipo di chiamata, ma non possono far pagare tariffe diverse a persone diverse, né ascoltare le chiamate per poi usare ciò che apprendono a fini pubblicitari.
Applicare il principio di non discriminazione a Facebook e YouTube potrebbe avere diversi effetti. Il Congresso ha ampi poteri per regolare il modello economico dei servizi pubblici, e potrebbe vietare la pubblicità mirata o qualsiasi forma di amplificazione algoritmica. Un’altra opzione sarebbe vietare tutta la pubblicità, mirata o no, il che significherebbe che le piattaforme sarebbero finanziate da pubblicità non mirate oppure da abbonamenti. Invece degli annunci, YouTube potrebbe costare 10 dollari al mese, più o meno quanto Amazon Prime. Invece di scegliere quali contenuti mostrare agli utenti – o, più cinicamente, con quali contenuti renderli dipendenti – Facebook mostrerebbe i contenuti nell’ordine in cui sono stati pubblicati. Il risultato della regolamentazione come servizio pubblico sarebbe che i cittadini potrebbero scegliere tra alcune piattaforme gestite da aziende tecnologiche, e separatamente tra fonti di notizie gestite da editori (si spera) responsabili.
Le grandi aziende tecnologiche non vogliono nessuna riforma. Spenderanno miliardi per convincerci a non fare nulla. E, siccome queste aziende hanno finalmente deciso di limitare Donald Trump e di espellere i no-vax, i progressisti potrebbero essere tentati di pensare che non fare nulla sia in realtà la scelta migliore. Finché Mark Zuckerberg di Facebook e Sundar Pichai di Google prendono decisioni che piacciono ai progressisti, potremmo non sentire il bisogno di giustificare un divieto da parte del governo, o rifiutare l’esistenza di discorsi che non ci piacciono. In questo modo, continueremo a lodare la versione ampia della libertà di parola degli anni ‘50 e ‘60, e l’importanza di uno spazio pubblico aperto e vivo, invece di proporre una versione più limitata del Primo Emendamento o di difendere il diritto di parola anche per chi ha opinioni discordanti. Facebook, in particolare, ha capito bene questa dinamica, e ha persino assunto un gruppo di accademici e giornalisti di alto livello, facendo credere al pubblico che abbiano il potere di modificare alcune decisioni di Zuckerberg. L’obiettivo del Consiglio di Sorveglianza di Facebook è chiaramente quello di rassicurare l’opinione pubblica sul fatto che le decisioni riguardo ai contenuti vengano prese da “saggi indipendenti”, non da investitori che vogliono massimizzare i profitti della pubblicità mirata evitando al contempo riforme legali.
Chi si sente rassicurato da questa apparente sicurezza dovrebbe sapere che sta, in pratica, sostenendo un’alternativa alla democrazia. Il giurista Louis Brandeis disse una volta: “Possiamo avere democrazia in questo paese, oppure possiamo avere una grande ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo avere entrambe”. Questa frase è ancora più vera quando si parla di comunicazione: possiamo avere la democrazia, oppure possiamo lasciare il potere di decidere cosa si pubblica nelle mani di pochi magnati della pubblicità, ma sicuramente non possiamo avere entrambe le cose.
Bisogna smantellare il potere dei magnati della pubblicità, separare gli editori dalle piattaforme, ripristinare lo stato di diritto, riconoscere il ruolo pubblico delle grandi aziende dei social network, e allora avremo una possibilità di lottare. In altre parole, bisogna seguire la politica delle comunicazioni che ha definito la legge americana fino agli anni ‘70: regolare l’infrastruttura, far rispettare il diritto comune contro la diffamazione, e per il resto disperdere il potere il più possibile.
Vedere, The Government Needs to Find Big Tech a New Business Model
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