Giustizia, Pace, Integrità del Creato
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Quando l’aldiquà sostituisce l’aldilà

Kinshasa 11.09.2021 Gian Paolo Pezzi, mccj Tradotto da: Jpic-jp.org

“L’aldilà è sostituito dall’aldiquà”, ammoniva nel 1956 il card. Montini. Il futuro Paolo VI era un uomo di cultura e grande conoscitore della cultura moderna che apprezzava. Il suo non era un richiamo a valori unicamente religiosi o atemporali, ma a non rimanere rinchiusi dell’immediato. 

“L’attrattiva delle cose naturali si è fatta suggestiva; natura, scienza, tecnica, economia e godimento impegnano potentemente la nostra attenzione, il nostro lavoro, la nostra speranza. La fecondità che l’ingegno e la mano dell’uomo hanno saputo trarre dal seno della terra, ci ha procurati beni, ricchezze, cultura, piaceri, che sembrano saziare ogni nostra aspirazione, e che sembrano corrispondere alle nostre facoltà di ricerca e di possesso. Qui è la vita, dice la nostra conquista del mondo circostante; e qui si dirigono, arrivvano e si arrestano i nostri desideri; qui arriva la nostra speranza, qui si ferma il nostro amore”, diceva nella sua omelia il card. Montini.

I nostri progressi umani dovrebbero invece stimolare nuovi passi verso il futuro, verso qualcosa di superiore, verso l’aldilà come realtà a venire, invece di fermarci distratti sul sentiero della vita, abbarbicati a valutazioni e valori che oggi sorgono e domani spariscono in una cultura divenuta liquida.

L’Afghanistan è un monito. 15 anni fa vedevamo gli Stati Uniti vincitori sui talebani da poco insediatisi al potere come vincitori. Oggi sono i perdenti e i talebani di nuovo i vincitori. Il Covid19 ci pone domande che provocano conflitti quando è in gioco la stessa salute. Ma non si tratta solo di guerre e di epidemie.

Le grandi imprese umane, le conquiste del progresso, gli stessi diritti e valori umani si trovano in un turbinio di giravolte come in un campionato di calcio, dove oggi vince una squadra e domani un’altra. Quanti sembrano oggi i protagonisti di preziosi progressi umani e si erigono sul piedestallo della riconoscenza, cadono poco dopo nell’abisso magari dell’abominio. I parametri di valutazione in uso, abbarbicati all’aldiquà impediscono vedere più in là, oltre il fluttuare dei meriti e delle circostante.

Dalla gloria alla polvere, si diceva di Cuomo, ex governatore dello Stato di New York, candidato in pectore alla presidenza USA per i suoi successi nella lotta al Covid fino a quando si scoprirono le menzogne delle sue statistiche e i suoi affari poco chiari con diverse collaboratrici.

Non pochi hanno avuto un busco risveglio nel leggere che il tanto ammirato Obama ha suscitato indignazione per la festa dei suoi 60° anni, mentre i media a lui favorevoli eclissavano il suo ballo senza maschera in una tenda affollata.

Due articoli in francese la dicono lunga sul premio più ambito e più celebrato negli ultimi decenni e sono un invito a ridimensionare apprezzamenti e valutazione disegnati con i criteri dell’aldiquà: Questi vincitori del premio Nobel per la pace che fanno le guerre e Da vincitore del premio Nobel per la pace a signore della guerra.

“E’ sempre rischioso promuovere qualcuno - diceva Asle Sveen, storico del premio Nobel-. Non si è in grado di prevedere cosa può accadere in futuro”. Lo si dovrebbe allora assegnare solamente a chi è ormai in punto di morte? Forse, o magari assegnarlo con criteri “dell’aldilà”. E infatti, il Nobel della Pace ha avuto riscontri poco felici, sia per le nomine che per le premiazioni.

Tra i nominati ci furono, ad esempio, Adolf Hitler e Stalin. Stalin lo fu nel 1945 e 1948 per il suo impegno a concludere la Seconda Guerra Mondiale. Hitler nel 1939, proposto da un membro antifascista del parlamento svedese, E.G.C. Brandt, anche se solo come un satira incompresa. 
Ghandi, simbolo della non-violenza del XX secolo, fu nominato più volte: nel 1937, 1938, 1939, 1947 e nel 1948 poco prima di essere assassinato, senza mai ottenerlo. 

E i vincitori? Non sempre furono costruttori di pace corrispondendo all’onore. 

Il Presidente americano Theodore Roosevelt ebbe il Premio nel 1906 per aver negoziato la pace nella guerra russo-giapponese e risolto una disputa con il Messico. Fu criticato per gli interventi militari nelle Filippine fino al 1902, poi a Panama nel 1903, però almeno tutto questo avvenne prima del premio.

Henry Kissinger, segretario di Stato durante la presidenza Nixon, e Lê Ðức Thọ (vero nome Phan Đình Khải), condivisero il Nobel nel 1973 per la volontà di mettere fine alla guerra nella penisola asiatica. Lê Ðức rifiutò il premio perché il conflitto, nonostante gli accordi di pace del 1973, si prolungò fino al 1975. 

Il leader israeliano Menachem Begin ottenne il premio insieme a Anwar el-Sadat nel 1978 per gli accordi di Camp David. Continuerà, però, con i suoi tre “no” a qualsiasi retrocessione di territori ai palestinesi, a uno stato palestinese e a qualsiasi negoziato con l’OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina). Nel 1982 ordinerà l’invasione del Libano. 

Lech Walesa vinse il Nobel nel 1983 per la campagna a favore della libertà di organizzazione in Polonia, quando Solidarnosc era ancora lontana dal successo e c’era chi lo accusava di fare il doppio gioco per aver lavorato con i servizi segreti comunisti. 

Il leader sovietico Mikhail Gorbachev si aggiudicò il Nobel nel 1990 per il suo ruolo di pacificatore al termine della Guerra Fredda. Poi nel 1991 mandò i carri armati a soffocare le aspirazioni all’indipendenza dei paesi baltici. 

Aung San Suu Kyi fu insignita del premio Nobel nel 1991 per la sua “lotta non violenta per la democrazia e i diritti umani”. Nel 2017, consigliere di stato e ministro degli affari esteri e dell'Ufficio del presidente, muoverà un dito per difendere la minoranza Rohingya.  

Yassir Arafat, ricevette il Nobel nel 1994 per gli sforzi di pace in Medio Oriente, condividendolo con Rabin e Peres grazie agli accordi di Oslo. Poco dopo venne la violenta seconda intifada contro Israele. 

Barack Obama lo vinse nel 2009, pochi dopo l’inizio del suo primo mandato come Presidente degli USA, per il suo impegno a farla finita con il ciclo di interventi militari dei suoi predecessori. Non aveva ancora conseguito alcun obiettivo di pace e arrivò a Oslo per ritirare il premio dopo aver triplicato il numero delle truppe in Afghanistan. I militari USA arriveranno poi in Libia e Siria. 

L’Unione Europea lo ottenne nel 2012 proprio quando imponeva alla Grecia, un suo stato membro, le dure condizioni finanziarie che, secondo alcuni economisti, avrebbero distrutto molte vite.  

Il presidente colombiano Juan Manuel Santos ebbe il premio nel 2016 per i suoi sforzi nel processo di pace con le FARC, un accordo poi clamorosamente bocciato dal referendum popolare. 
Abiy Ahmed, primo ministro etiope, è premiato dall'Accademia di Oslo nel dicembre 2019 per aver posto fine al sanguinoso conflitto con l'Eritrea. Meno di un anno dopo scatena una “guerra a porte chiuse” contro la provincia ribelle del Tigray.

Anche “i santi” fra i Premi Nobel per la pace fanno discutere. Madre Teresa, vincitrice del Premio nel 1979 fu accusata nel 1994 dalla rivista medica britannica The Lancet per non assicurare diagnosi e potenti antidolorifici ai pazienti morenti nel suo ospizio di Calcutta.

Il rischio di delusione aumenta con la scelta dei vincitori per la speranza che rappresentano o per un traguardo recente, piuttosto che per tutta la loro carriera, aggiunge il citato storico del Premio Nobel per la pace Asle Sveen. Cioè, i criteri dell’aldiquà d’una cultura liquida non garantiscono nemmeno la serietà al Premio Nobel per la Pace. Come possono assicurare giustizia e serietà in altri campi? Allora, quando si troverà la volontà e la decisione di cambiare di strada?

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