Giustizia, Pace, Integrità del Creato
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Quando l’assurdo diventa speranza

Butembo 01.01.2022 Jpic-jp.org

Fare advocacy può essere a volte anche un’idea, un’intuizione che apre un cammino di speranza e di luce su realtà sociali, culturali e storiche che sembrano produrre solo tenebre e sofferenza, ascoltando parole che hanno prodotto la morte nel cuore.

“E’ tuo marito, da lui devi avere figli”. Teresa ascoltò con la morte nel cuore queste parole. Ragazze e giovani donne in ogni parte del mondo hanno vissuto il suono di queste parole come l’infrangersi di sogni, illusioni e speranze. Parole che hanno trasformato le loro giovani vite in un inferno e spesso in tragedia. Ogni settimana vengono alla ribalta storie di giovani donne che per rifiutare un matrimonio forzato sono vittime della famiglia o del proprio gruppo sociale o vivono la violenza famigliare di chi pretende imporre loro un diritto culturalmente acquisito.

I dati sui matrimoni precoci sono impressionanti: circa 650 milioni di donne oggi in vita sono state sposate da bambine, dunque per definizione con un matrimonio almeno psicologicamente forzato.

Nel 2016, i matrimoni forzati sono stati 15,4 milioni. L'88% delle vittime erano giovani donne, il 37% aveva meno di 18 anni e il 44% meno di 15 anni al momento del matrimonio.

La mobilità ha fatto sì che il fenomeno si sia diffuso. Nel 2016, una persona al giorno era forzata a sposarsi in Svizzera e in poco più di tre anni i matrimoni forzati registrati erano 905. Promessa in sposa a un amico di famiglia quando era ancora minorenne, Giulia si ribella, fugge di casa e sporge denuncia contro i suoi genitori. Scamperà a questa sorte ma, scriverà, “I miei genitori mi volevano morta”. Nel 2020, la Forced Marriage Unit (FMU) del Regno Unito ha fornito consulenza o supporto in 759 casi relativi a un possibile matrimonio forzato.

La Teresa di cui parliamo non era una minorenne. Chi pronunciava parole che avevano il sapore di una sentenza di morte non era un padre o uno zio violento succube di una tradizione assurda. Era il comboniano Padre Orwhalder, guida spirituale di Teresa Grigolini, questo il suo nome vero, una religiosa, missionaria, comboniana. Quelle parole cadevano, non in un contesto famigliare tradizionale, ma in un campo di prigionia, in Sudan, sì lo stesso Sudan che scorre sugli schermi e le prime pagine d’attualità oggi dopo il colpo di stato militare dell’ottobre 2021.

Dal 1882 al 1898 il Madhi, autoproclamatosi successore di Maometto, imponeva il fanatismo islamico come riforma religiosa e cammino d'indipendenza del Sudan. Suore, missionari, laici stranieri arrivati sul posto come impiegati coloniali e commercianti vengono fatti prigionieri: alcuni muoiono quasi subito, altri scelgono l’apostasia in cambio della libertà, altri vivono in disumane condizioni pur di non tradire la loro integrità personale, la loro fede o la loro vocazione.

Sulle suore pesa una minaccia speciale: nessuna donna nella cultura mussulmana può vivere sola, deve appartenere ad un uomo. Saranno dunque date, vendute ad un harem dei nuovi padroni. La minaccia è concreta e un diplomatico, il governatore austriaco del Sudan, anche lui prigioniero, suggerisce l’idea di matrimoni finti con dei greci ortodossi anch’essi prigionieri: le apparenze saranno salve e la vita delle suore anche. Passa il tempo e dopo tre anni i mahdisti vedono che questi matrimoni non fanno figli, subodorando l’inganno minacciano l’uccisione di tutti i prigionieri cominciando con le suore.

Teresa era nata in una famiglia benestante e ricevette una buona istruzione. Affascinata dal Comboni, decide di accompagnarlo nel sogno di rigenerare l’Africa con l’Africa. Comboni ha una stima immensa per le sue doti di donna e di cristiana e le affida il ruolo di superiora del gruppo di quattro suore che il 10 dicembre 1877 lasciano con lui l’Italia per la prima missione in Sudan.

Comboni muore appena prima dell’inizio della Mahadia. Nel campo di prigionia il padre Orwhalder assume la responsabilità di guida dei prigionieri e decide che almeno uno dei matrimoni sia consumato: alla nascita d’un bambino è affidata la salvezza di tutti. Teresa è la superiora e il suo servizio ora è di sacrificare la sua vita.

Accetta con la morte nel cuore, esclusivamente per “salvare le sorelle da mali peggiori”. I figli nascono, il suo gesto protegge i prigionieri fino al 1898 quando arriva la vittoria degli Inglesi sul Madhi. Tutti i prigionieri riprendono poco a poco la vita di prima, chi nel convento chi nella propria famiglia: “per me sola – scriverà Teresa - non ci sarà più né convento né famiglia e fino alla morte durerà la mia schiavitù”. Nella sua vita c’è ormai Dimitrj Cocorempas, che lei non ha né scelto né amato ma al quale è legata, come le innumerevoli vittime dei matrimoni forzati, dai figli che le ha dato. Lo assisterà anche quando diventa violento nella sua lunga malattia, le è vicina nel cammino che lo riavvicina alla fede e gli chiude gli occhi nel 1915.

Tre anni dopo rientra in Italia, con i figli ormai grandi ma deve affrontare una nuova tragedia: il grande imbarazzo dei parenti e del paese, “perché tutti sapevano che ero stata suora”. La congregazione rifiuta di riaccoglierla e Teresa “assapora fino in fondo l’incomprensione e l’esclusione”, il giudizio ingiusto a volte inconsapevole di quanti continua ad amare e a cui si sente unita per sempre. Muore il 21 ottobre 1931, ad 81 anni.

La cronaca non la ricorda, solo il registro civile ne conserva la data. Come nel silenzio muoiono ogni giorno centinaia di madri fedeli per amore dei figli dopo anni di solitudine personale e sociale per via di un matrimonio forzato.

Passeranno 80 anni prima che delle consorelle coraggiose comincino a riconoscerne il “martirio”, durato quasi mezzo secolo. Passeranno decine d’anni, secoli prima che il coraggio d’un Papa semplice e a volte incompreso rivendichi il valore di tante giovani donne vittime di matrimoni forzati e di violenza domestica.

Nel 1995, a 60 anni dalla morte, la salma di Teresa viene finalmente accolta nella tomba delle Missionarie comboniane, e nel 2012 ha inizio lentamente il processo di beatificazione di Teresa Grigolini Cocorempas che renderà omaggio ad una vita di schiavitù che per amore degli altri è diventata servizio e martirio.
L’8 febbraio le Chiese, animate dal movimento interconfessionale Talitha Kum, rinnova l’impegno a lavorare per la libertà di milioni di vittime della nuova schiavitù, il traffico di persone. Milioni di giovani donne vedono la loro vita finire prigioniera di matrimoni forzati o di una violenza sessuale senza la fede che continuò a nutrire e a sorreggere Teresa per 50 anni.

Non potrebbe l’icona di Teresa dagli altari infondere loro una speranza? Anche la vita costretta ad una convivenza assurda per la violenza tradizionale di una cultura che stenta a morire ha pur sempre un senso ed una ricchezza che meritano di essere accolti nella certezza che daranno i loro frutti.

Foto. 1875 Teresa Grigolini in Sudan.

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