Una parte dei soldi versati dalla Banca mondiale a 22 paesi poveri (18 africani) è finita alle Isole Cayman, in Svizzera, in Lussemburgo e a Singapore. Lo dice uno studio emanazione della istituzione finanziaria internazionale. Si ipotizza collusione tra quadri della banca e dirigenti africani.
Uno studio della Banca Mondiale (BM), pubblicato nel febbraio 2020 e rimasto “sotto traccia” in questi mesi, ha fatto venire a galla sottrazioni massicce di denaro destinato ai paesi poveri dalla stessa BM. S’intitola L’aiuto finanziario accaparrato dalle élite ed è un documento di 45 pagine in cui si dimostra che, tra il 1990 e il 2010, circa il 7,5% dell’aiuto finanziario fornito dalla BM a 22 paesi in via di sviluppo ha preso la direzione dei paradisi fiscali. Il rapporto ha fatto parecchio rumore perché è emanazione degli apparati della stessa BM e perché certifica che i versamenti della BM a questi 22 paesi (18 dei quali africani), che sono i più dipendenti dall’aiuto dell’istituzione finanziaria, “coincidono con degli aumenti significativi dei depositi nei paradisi fiscali”.
Non meraviglia che la pubblicazione del rapporto sia stata tribolata, visto che l’istituzione è accusata di alimentare questa deriva. Il settimanale britannico The Economist aveva fatto delle rivelazioni il 13 febbraio 2020, secondo le quali i vertici della BM avevano disapprovato le conclusioni dello studio e ne avevano perciò ritardato la pubblicazione. Non da oggi, economisti africani denunciano le mancanze della Banca Mondiale nel finanziamento e nel controllo dei progetti mettendo in evidenza la collusione tra alcuni soggetti dell’istituzione e taluni dirigenti (e/o politici) africani poco raccomandabili. Ed è proprio in questo modo, come sottolinea lo studio, che una quota delle centinaia di milioni di dollari che sono versati all’Africa nel quadro dell’aiuto allo sviluppo finiscono nei paradisi fiscali e sono il segno di guadagni illegali messi con discrezione al sicuro.
Denaro in fuga
E vediamoli i paesi africani oggetto dello studio: Burkina Faso, Burundi, Eritrea, Etiopia, Ghana, Guinea-Bissau, Madagascar, Malawi, Mali, Mauritania, Mozambico, Niger, Ruanda, São Tomé e Príncipe, Sierra Leone, Tanzania, Uganda, Zambia. È chiaro che il rapporto mette direttamente in causa l’efficacia dell’azione della BM. In quanto i versamenti che dovrebbero innescare lo sviluppo vanno in parte a dare corda alla corruzione nei paesi poveri. Si legge nello studio: “Questi versamenti coincidono con un rilevante aumento di trasferimenti verso centri finanziari offshore conosciuti per la loro opacità fiscale”. Si tratta in particolare di Svizzera, Lussemburgo, Isole Cayman e Singapore. Il rapporto analizza un periodo di vent’anni (1990-2010) e afferma che il «tasso di fuga» medio è stimato intorno al 7,5%. Per una parte dei paesi beneficiari di aiuti si arriva la 15%, quando l’aiuto rappresenta almeno il 3% del Prodotto interno lordo (Pil). Sono Burundi, Guinea-Bissau, Eritrea, Malawi, Mozambico, Sierra Leone e Uganda. Quando invece l’aiuto è equivalente all’1% del Pil, i depositi nei paradisi fiscali aumentano del 3,4%. Nello stesso periodo, si è accertato che i depositi sono nulli o quasi nei paesi che non sono paradisi fiscali.
Ci sono paesi per i quali i depositi nei paradisi fiscali rappresentano somme rilevanti. Per esempio: Madagascar, 193 milioni di dollari; Ruanda, 149; Tanzania, 145; Zambia, 117; Burundi, 103.
Punta dell’iceberg?
Da rilevare che lo studio non mette l’accento sulle responsabilità dei quadri e dei meccanismi di lavoro della Banca Mondiale in questa vicenda che possiamo definire di clientelismo istituzionalizzato. Secondo Pape Demba Thiam, un economista senegalo-svizzero che lavora da 14 anni alla Banca Mondiale, “ciò significa che lo studio in realtà si sofferma solo sulla parte emergente dell’iceberg, non a caso l’istituzione internazionale ha tentato di censurarlo. E fa supporre una situazione più profonda della corruzione dei dirigenti africani”. A parere di Yves Ekoué Amaïzo, economista e politico togolese, direttore di Afrocentricity Think Tank, la BM ha costruito un sistema di corruzione e di irresponsabilità delle élite dei paesi poveri, e ciò nell’impunità totale. In ogni caso, il rapporto mostra le insufficienze nella gestione degli aiuti accordati ai paesi più fragili che non li utilizzano pienamente e ciò a tutto svantaggio delle fasce più deboli della popolazione. Quello che il rapporto rileva, richiederebbe una risposta da parte dei più alti livelli dell’istituzione internazionale, proprio perché è messa in discussione la sua missione e il suo ruolo. Intanto le conseguenze di questa evasione fiscale hanno ricadute pesanti sulle singole economie dei paesi africani. Anche se il rapporto non quantifica i danni che i paesi stanno avendo in seguito all’aiuto dirottato verso i paradisi fiscali, va ricordato che, secondo studi dell’ONU, se l’Africa riuscisse a ridurre i flussi finanziari illeciti in uscita potrebbe disporre di 89 miliardi di dollari l’anno. Una cifra che si ottiene dalla fuga di capitali, dalle pratiche fiscali e commerciali illegali (come la falsa fatturazione degli scambi commerciali), dalle attività criminali che gestiscono mercati fuori legge e dalla corruzione.
Il 28 settembre 2020, Mukhisa Kituyi, segretario generale della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD), ha dichiarato: “I flussi finanziari illeciti privano l’Africa e i suoi abitanti di prospettive per il futuro, compromettono la trasparenza e la responsabilità, e minano la fiducia nella istituzioni del continente”. Dal 2000 al 2015, la fuga di capitali provenienti dall’Africa ha toccato complessivamente la cifra di 836 miliardi di dollari. Se si fa il paragone con il totale del debito estero dell’Africa, che nel 2018 era di 776 miliardi, ci si rende conto che l’Africa è un creditore netto del resto del mondo.
Un’evasione da 25 miliardi
L'evasione fiscale costa all'Africa più di 25 miliardi di dollari l’anno. È ciò che emerge da uno studio condotto da una rete di organizzazioni non governative, tra cui la Global Alliance for Tax Justice. In un momento di lotta alla pandemia di Covid-19, questa fuga è considerata inaccettabile. Anzi, riduce le entrate che i paesi africani potrebbero dedicare alla loro salute. Ventitré miliardi di dollari è la cifra stimata che le multinazionali, locali o estere, che operano in Africa hanno ritirato dai paesi in cui lavorano. A questa somma si aggiungono poco più di due miliardi che dei ricchi africani hanno trasferito in paradisi fiscali. Il paese più colpito da questo fenomeno è la Nigeria, seguita da Sudafrica, Egitto e Angola. Ma anche un paese come le isole Maurizio, considerato da alcuni un paradiso fiscale, è vittima del fenomeno con una perdita stimata di 60 milioni di dollari. Come ha rivelato un recente rapporto dell'Ocse, questa evasione non è sempre illegale poiché molte multinazionali, in particolare nel settore minerario, negoziano condizioni fiscali vantaggiose con gli stati in cambio dei loro investimenti. Ma che sia legale o meno, questa fuga di capitali ostacola i paesi. Global Alliance for Tax Justice stima che l’evasione in Africa rappresenti, in media, la metà dei bilanci sanitari degli stati. Se quei soldi rimanessero nel continente si potrebbero assumere dieci milioni di infermieri in più all’anno.
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