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I problemi dell'Antropocene

Ethic 20.06.2025 Manuel Arias Maldonado Tradotto da: Jpic-jp.org

Dire che viviamo nell'Antropocene significa affermare che l'impatto complessivo degli esseri umani sull'ambiente ha finito per destabilizzare il sistema terrestre, avviandolo verso un nuovo equilibrio le cui caratteristiche sono ancora sconosciute anche se abbiamo ancora tutta un'epoca davanti a noi.

Suona simpatico dire che il termine Antropocene è apparso proprio nel 2000, quando il chimico olandese Paul Crutzen lo suggerì parlando a ruota libere senza scartoffie nel corso di un congresso accademico tenutosi in Messico. Suona simpatico ma impreciso: chi è incline ad affermare che il concetto nasce con il XXI secolo dovrà ricordare che, in realtà, il XXI secolo inizia nel 2001, anche se qualcuno tende a pensare il contrario.

L'imprecisione è però pertinente, poiché nessuno sa quando sia iniziato l'Antropocene e c'è persino chi nega che sia mai esistito. Tuttavia, esiste. O meglio: i fenomeni su cui si basa questa ipotesi sono osservabili empiricamente; un'altra questione è discutere della loro importanza e delle loro implicazioni. E per finire: gli ultimi anni hanno visto sì intensificarsi l'agenda verde, ma anche una crescente contestazione politica del termine in società polarizzate dove lo stile politico populista è dominante.

Ma andiamo con ordine. Dire che viviamo nell'Antropocene significa dire che l'impatto complessivo degli esseri umani sul medio ambiente ha finito per destabilizzare il sistema terrestre, avviandolo verso un nuovo equilibrio di cui ci sono ancora sconosciute le caratteristiche. La sua manifestazione più nota è il cambiamento climatico, ma sono noti anche l'acidificazione degli oceani, la perdita di biodiversità, la comparsa di specie invasive, la concentrazione delle popolazioni umane nelle città, l'uso massiccio di plastica o l'aumento dei rifiuti. Tutti questi fenomeni si spiegano per l'azione umana, anche se quasi tutti ne sono un effetto collaterale e spesso imprevisto: possiamo dire che l'Antropocene è arrivato senza che ce ne accorgessimo.

O quasi: se l'essere umano si caratterizza per adattarsi in modo aggressivo al mondo naturale, trasformandolo a proprio vantaggio, la modernità ha portato con sé un aumento dei nostri poteri di intervento. Basti pensare che il notevole aumento di CO2 emesso nell'atmosfera negli ultimi due secoli è causato dall'uso di combustibili fossili: la stessa fonte di energia che ha reso possibile la crescita economica con l'industrializzazione è ora quella che mette in pericolo le favorevoli condizioni planetarie che erano prevalenti nel corso dell'Olocene. Da qui il precario accordo raggiunto sulla necessità di decarbonizzare le nostre società: l'Antropocene sarà sostenibile o non sarà.

L'Antropocene, però, non è una realtà fisica, ma un concetto che cerca di dare un senso allo stato delle relazioni società-natura. Afferma che stiamo vivendo nell’epoca degli umani: la nostra specie è ormai l’agente principale del cambiamento ambientale globale. Per alcuni geologi, questo cambiamento è leggibile nel registro fossile del pianeta per cui è doveroso annunciare la fine dell'Olocene e l'inizio dell'Antropocene. Per il momento, gli organismi responsabili di decidere sulla cronografia ufficiale della Terra hanno respinto questa possibilità; i criteri stratigrafici non sono soddisfacenti e quindi propongono di parlare semplicemente di un «evento» geologico. Mentre gli scienziati naturalisti si mettono o no d'accordo, noi altri possiamo convenire che l'Antropocene è un nuovo periodo storico; i fenomeni socio-naturali su cui si basa questa idea – i cambiamenti nel mondo naturale causati dall'impatto dell'attività umana – continueranno ad esistere e quindi dobbiamo assumerci il compito di «amministratori planetari» chiamati a mettere ordine nella propria casa.

Tuttavia, mettere d'accordo 8 miliardi di persone su cosa fare al riguardo è ancora più complicato. Va detto subito che il disaccordo è inevitabile: si tratta nientemeno che di abbandonare le fonti di energia che hanno reso possibile la modernizzazione della società e l'aumento del benessere materiale di cui gode oggi gran parte degli esseri umani... senza compromettere l'aspirazione degli altri a raggiungerlo. Ce n'è per tutti i gusti: chi crede che il capitalismo metta in pericolo la nostra sopravvivenza suggerisce di interrompere la crescita e di vivere in modo diverso; i loro antagonisti ribattono che i modelli climatici esagerano e che ci sono problemi più gravi che richiedono la nostra attenzione. In pratica, entrambe le parti puntano sull'inazione: gli uni coltivano la fantasia della decrescita, gli altri si abbandonano all’immobilismo.

Più equilibrati sono quanti propongono la sostenibilità delle società moderne attraverso l'innovazione tecnologica, la regolamentazione pubblica e il cambiamento culturale. Ma anche qui si verifica una scissione: alcuni hanno fretta, altri credono che la fretta sia cattiva consigliera. Se i primi confidano nello Stato come agente in grado di rivoluzionare la società a colpi di legislazione, i secondi mettono in guardia dai pericoli che comporta ignorare la complessità che caratterizza le nostre società attuali. E non solo perché le buone intenzioni possono portare a risultati disastrosi, come dimostrano le crescenti difficoltà dell'industria automobilistica europea nel far quadrare i conti, ma anche perché chi si sente leso nei propri interessi in modo ingiusto non resterà a guardare. Ecco spuntare le proteste degli agricoltori europei e dei cittadini a reddito medio-basso di tutto il mondo: né gli uni né gli altri accettano che le élite politiche accelerino la transizione energetica senza prima garantire la legittimità politica e l'equità sociale.

Tutto indica, infine, che una certa tattica porta a risultati controproducenti: il ritorno al potere di Donald Trump conferma una svolta globale verso destra che minaccia di frenare bruscamente l'agenda verde. Anche la Commissione Europea guidata da Ursula von der Leyen, che nella primavera del 2023 ha partecipato a un congresso sul decrescimento organizzato dal Parlamento Europeo, ha affermato che l'Unione Europea deve concentrarsi sulla ripresa della crescita. E dov'è Greta Thunberg? Forse stiamo andando verso un mondo in cui l'adattamento climatico avrà più peso delle politiche di mitigazione, un mondo in cui una maggiore consapevolezza ambientale non si tradurrà necessariamente in un'agenda verde ambiziosa.

C'è comunque spazio per l'ottimismo: che la transizione energetica fosse politicizzata era inevitabile una volta che ha guadagnato visibilità pubblica; la comparsa di voci pragmatiche è, inoltre, più che salutare. E di fatti sono stati fatti molti progressi: l'innovazione energetica, che può essere un motore di crescita e un business redditizio, non si fermerà facilmente. Chiedetelo alla Cina! Quindi né troppo né troppo poco: tutto diventa sempre più interessante e abbiamo ancora tutto l'Antropocene davanti a noi.

Vedere, Las dificultades del Antropoceno

Disegno: Óscar Gutiérrez

 

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