Giustizia, Pace, Integrità del Creato
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La Chevron ha lasciato l'Ecuador lasciando 300 dollari nel C/C e la foresta distrutta

IPS 02.08.2023 Fernanda Sandéz Tradotto da: Jpic-jp.org

Gli ecuadoriani hanno votato massicciamente contro lo sfruttamento della riserva del petrolio nel parco di Yasuní. Come mai? I miliardi di questo petrolio non servirebbero per il bilancio dello Stato? Non è quello che pensano gli ecuadoriani. Perché...

La foto risale ad anni fa. La donna - giovane, con i capelli ancora molto scuri - si trova in mezzo alla foresta, precisamente nella zona di Lago Agrio, nel cuore dell'Amazzonia ecuadoriana. Mostra alla telecamera il palmo nero della mano e fissa l'obiettivo senza sorridere. Non ne ha il motivo: ciò che fa sparire la sua mano e le sue dita in pieno giorno è, infatti, petrolio.

È così che il gigante petrolifero statunitense Chevron ha lasciato il sito dopo anni di attività. Le conseguenze ambientali e sociali continuano ancora oggi. “La gente organizza persino dei cosiddetti ‘tour tossici’ per visitare l'area. La foto mi è stata scattata durante uno di questi tour. Lì, quando pianti un bastone in terra, non esce acqua ma petrolio", racconta Adoración Guamán, l'avvocatessa ecuadoriano-spagnola che da decenni denuncia quella che non esita a definire una "architettura giuridica dell'impunità".

Oggi, infatti, dopo essere stata condannata nel 2011 da un tribunale ecuadoriano in un processo durato otto anni, con sei giudici e più di 220.000 pagine di prove, la società ha finito per essere beneficiata da un tribunale olandese.

Conclusione: è l'Ecuador a dover risarcire la compagnia. "Nel frattempo le persone colpite dall'inquinamento, non hanno ancora visto un solo dollaro", spiega.

Oltre ad essere un'attivista per i diritti umani, Guamán - la donna nella foto a Lago Agrio - è un'esperta di commercio internazionale, catene di approvvigionamento e schiavitù moderna.

È docente in diverse università dell'America Latina, è stata consulente del governo dell'Ecuador durante la presidenza di Rafael Correa (2007-2017) e da anni si batte per la creazione d’uno strumento giuridico internazionale vincolante in grado d’ottenere ciò che sembra così difficile: far sì che le imprese transnazionalirispondano delle loro azioni, risarciscano le vittime e non restino per sempre impunite quando violano i diritti umani e causano disastri ambientali anche lontano dalle loro sedi,.

Per questo Guamán - professoressa di diritto del lavoro all'Università di Valencia, titolare di due dottorati ed autrice di 75 articoli scientifici sull'argomento - fa parte da un decennio di un'iniziativa dal nome promettente: Campagna globale per rivendicare la sovranità dei popoli, smantellare il potere delle transnazionali e porre fine all'impunità. Niente di meno.

"E, nel giugno 2014, le Nazioni Unite hanno votato per andare avanti con la creazione di uno strumento a questo scopo", spiega.

Qual è lo stato attuale del progetto?

R/. Anche se il processo all’ONU è iniziato nel 2014, le lotte popolari erano già in corso da molto tempo, con tribunali del popolo, ecc. All’ONU, nel 2014 è stata approvata una risoluzione (n° 269) per la creazione d’un gruppo di lavoro. L’iniziativa era promossa dall'Ecuador e dal Sudafrica ed ha già tenuto otto sessioni; la nona si terrà nel novembre 2023.

All'epoca, nel 2014, l'Ecuador voleva non solo guidare la regione in materia di diritti umani, ma anche arrivare a controllare il potere delle imprese, un mandato che rientra nella sua costituzione. Tutto questo è stato molto segnato dal caso Chevron.

L'idea dell'ex presidente Correa, e del suo ministro degli Esteri, era quella di riuscire a che la legislazione internazionale sui diritti umani fosse modificata per includere strumenti che assegnassero alle grandi economie che controllano il mondo obblighi e responsabilità nei confronti dei diritti umani e della natura. Questa iniziativa è stata sostenuta da diversi gruppi della società civile che, con un voto senza precedenti ed a sorpresa dell'Unione Europea, hanno indetto una votazione e l'hanno vinta. L'UE, il Giappone e, naturalmente, gli Stati Uniti hanno votato contro. L'inizio era positivo, ma dopo otto anni la strada da percorrere è ancora lunga.

Perché?

R/. Dopo le elezioni e dopo che il governo dell'Ecuador si è spostato a destra, le cose hanno iniziato a complicarsi. C'erano battaglie che non si voleva venissero combattute - la battaglia per ottenere che questo accordo fosse vincolante, per esempio - e l'America Latina non è stata e non è parte di questa discussione. Così, dopo otto sessioni, abbiamo un testo che viene modificato e la presidenza del gruppo, detenuta dall'Ecuador, lascia molto a desiderare: non è stata in grado o non ha voluto tenere riunioni veramente produttive.

Avevamo chiesto la creazione d’una commissione o d’un tribunale che potesse sanzionare direttamente le imprese, come nel caso della Commissione per i crimini internazionali, o per lo meno una camera speciale dedicata a questo tema presso la Corte internazionale di giustizia, come aveva proposto la Francia.

Invece, dopo il cambio di governo in Ecuador e con l'avvento al potere di Lenin Moreno (2017-2021), il documento che avevamo scritto - in cui avevamo inserito gli obblighi per le aziende - è stato scartato ed è stato presentato un testo senza mordente. Un testo in cui le aziende non compariscono più come soggetti di obblighi diretti. Un testo decaffeinato che insiste sugli obblighi degli Stati ed in cui viene eliminato il primato dei diritti umani. Inoltre, ogni riferimento alla creazione d’un tribunale è assente e non si parla quasi nemmeno di un comitato. Tutto molto poco trasparente. Non si sa nemmeno chi ha redatto questo testo.

Ad oggi, non ci sono sanzioni internazionali né giustizia per le vittime, a parte qualche accordo economico extragiudiziale. Cosa le dà speranza che le cose cambino?

R/. Per me ci sono due elementi chiari di speranza. Da un lato, la mobilitazione sociale continua. In tutto il mondo, le organizzazioni sociali si oppongono alle imprese transnazionali e la loro voce viene sempre più ascoltata. Sedici anni fa, queste voci contro le transnazionali non si sentivano nei media o nei circoli accademici. Chi parlava contro l'impunità o il potere globale delle imprese non veniva ascoltato. Oggi, con la sola lotta per questo trattato vincolante, siamo riusciti a mettere sul tavolo dei negoziati il fatto che questi poteri esistono, che - come diceva Salvador Allende - sono poteri sovrastatali, che gestiscono il mondo e che sembra impossibile frenare. Sul fronte, c'è la lotta sociale. Ma, allo stesso tempo, nei contesti nazionali, ci sono numerose iniziative che stanno producendo dei risultati.

Quali?

R/. La legge francese sulla due diligence sta cominciando a dare frutti. Così come quella tedesca. Anche in Spagna ne stiamo elaborando una ed in America Latina ci sono diverse iniziative normative in tal senso. Inoltre, ci sono risultati nei tribunali internazionali e nelle controversie sul clima e sui diritti umani, per esempio. Tutto ciò sta andando avanti bene.

Ci sono dati d’organizzazioni sociali che hanno portato delle aziende davanti a tribunali internazionali ed hanno vinto. Molte transnazionali sono state messe alle corde e, con o senza un accordo vincolante, si continuano a fare progressi. È un processo lento e non sarà facile, perché questo va direttamente contro il nocciolo duro del capitalismo transnazionale. Oggi può sembrare che l'impunità continui, ma a livello sociale non è così.

Qual è il ruolo dei consumatori in tutto questo?

R/. È una questione questa che abbiamo discusso a lungo: per molti anni, quando si è capito che la responsabilità sociale delle imprese era solo un lifting, c'è stata la tendenza secondo cui la responsabilità ricadeva principalmente sull'acquirente. Ora, se da un lato la consapevolezza dei consumi da parte dell'opinione pubblica è molto importante, dall'altro è compito dello Stato far sì che ciò avvenga. Non possiamo ritenere le persone le sole responsabili del consumo di beni che dovrebbero essere vietati perché prodotti con gravi violazioni dei diritti umani o dell'ambiente. Quando un bene o un servizio è macchiato di sangue o prodotto con la conseguente distruzione della natura, lo Stato deve intervenire.

Ci sono esempi positivi in questo senso?

R/. La legge olandese sulla due diligence - che non è ancora uscita - va un po' in questa direzione. Propone che i consumatori possano acquistare "in tutta tranquillità". Dice esplicitamente: "Questa legge serve perché i consumatori possano acquistare in tutta tranquillità". Ma non è per questo che mi sto battendo, non è perché i consumatori possano acquistare in tutta tranquillità. Quello che cerco è che lo Stato si assuma la responsabilità di come le aziende importano per vendere (sul suo territorio o altrove) e ottenere un plusvalore basato sulla violazione dei diritti, indipendentemente dal luogo in cui vengono commessi.

Ma cosa si può fare ora che le aziende sono al governo?

R/. La cattura corporativa dei poteri pubblici è un fenomeno che, purtroppo, si verifica ovunque, dalla signora il cui fratello trafficava maschere, al ministro del Lavoro che proveniva dal settore delle banane, ecc. Tuttavia, il fatto di avere delle leggi che - al di là di questo - possono garantire delle norme, è già qualcosa.

Sono quelle che chiamo "leggi - trincea": approvate sotto governi progressisti, anche se arrivano governi conservatori, saranno là. Almeno finché non vengono abrogate. Quando sono stata al governo, ho partecipato al consolidamento di politiche sociali.

Com'è stata l'esperienza del contenzioso contro Chevron?

R/. È stato il mio primo caso su questi temi e sono stata coinvolta relativamente tardi, quando la prima causa era già in corso. Sono molto amica di Pablo Fajardo, l'avvocato del querelante, e sono stata coinvolta nel caso come parte dell'Unione degli Avvocati per Chevron Texaco (Udat). Ho avuto l'opportunità di lavorare con loro sul campo ed è questo che mi ha riportato in Ecuador. Scoprire la barbarie che avevano commesso mi ha spinto ad impegnarmi ancora di più. Dopo che le persone colpite hanno fatto causa alla Chevron ed hanno vinto la causa, nel 2011, con una sentenza definitiva, la Chevron se n’è andata, lasciando 300 dollari sul conto in banca e la foresta distrutta. E, al colmo dell'assurdo, ora - a causa della sentenza d’un tribunale olandese del 2018 - è l’Ecuador a dover pagare. Questa è impunità.

Vedere, Chevrón se fue de Ecuador dejando 300 dólares y la selva destrozada

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