Giustizia, Pace, Integrità del Creato
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Qualcosa non detto sulle migrazioni

Città del Mexico 05.11.2018 Gian Paolo Pezzi, mccj Tradotto da: Jpic-jp.org

Durante tre giorni, dal 2 al 4 novembre, si è celebrato in Città del Messico l’ottavo Foro Sociale Mondiale delle Migrazioni (FSMM). Lo scopo era quello di coordinare le azioni nel quadro del Global Compact for Migration lanciato dalle Nazioni Unite (ONU), un’iniziativa che vorrebbe che ognuno faccia la propria parte con gesti concreti a favore dei migranti.

In contrasto con l’atmosfera di celebrazione euforica e alla tendenza autoreferenziale di “parlando di sé stessi a propri adepti” del Foro Sociale Mondiale (FSM), in diversi eventi si poteva notare la serietà dell’analisi, l’apporto di storie vere e tragiche, di resilienza e di lotta contro la ‘cultura dello scarto’ al di là di ideologie e partitismo. L’immagine della carovana dei migranti che dal Centro America avanzava verso gli Stati Uniti si proiettava in ogni discorso ed intervento.

Questo sulle migrazioni è uno dei tanti Fori Tematici che si celebrano in alternanza con il FSM e come questo era aperto alla partecipazione di organizzazioni non governative (ONG), popolari e sindacali, ai gruppi religiosi e culturali, alle entità accademiche e statali. In questo caso, il centro d’interesse era la tematica delle migrazioni.

In questi eventi “aperti”, gli aspetti positivi e negativi si sovrappongono. Di fronte a una problematica come le migrazioni capace di mettere in crisi e di far cadere governi, la poca partecipazione, non più di alcune centinaia di presenze, la completa assenza d’informazione sull’evento nell’immensa città - 25 milioni - del Messico, sono segni negativi difficili da interpretare. A questo si accompagnava, anche stavolta, una quasi completa assenza dell’Africa, uno degli epigoni della migrazione perché non è solo fonte di emigranti intercontinentali, ma anche soggetto di accoglienza; basta pensare all’Uganda e al Kenya dove si concentrano milioni di rifugiati dei paesi vicini. Una certa disorganizzazione - eventi che si sovrapponevano ed altri che erano soppressi, sale senza adeguati strumenti e cronici ritardi - è stata in parte attutita per la ridotta partecipazione e il ridotto numero di eventi - alcune decine -, dal fatto che l’evento si è realizzato in un unico edificio e dall’accoglienza “messicana” che suppliva alla mancanza d’informazioni.

Il Foro si è svolto attorno a 7 poli tematici: diritti umani, lavorativi e sindacali; inclusione, ospitalità e mobilità; realtà di frontiere, muri e barriere; resistenze, attori, movimenti e azioni; crisi del capitalismo e conseguenze sulle migrazioni; migrazione, genere e corpo; diritti di Madre Natura, cambio climatico e migrazioni; comunità transnazionali e popolazione migrante.

Nei tre giorni del Foro, attorno a questi poli, si sono succeduti attività e laboratori come: Per un Mondo senza Muri, dal Messico alla Palestina; Frontiere di morte, frontiere solidali; Salute del migrante, fisica, mentale e sociale; Centri Santuario; Globalizzazione delle frontiere e resistenza dei popoli; Mobilizzazione cittadina e sensibilizzazione in favore dei migranti.

Pur nei suoi limiti, il FSMM si è rivelato fecondo in indicazioni e riflessioni.   

Ha positivamente colpito, per esempio, lo spazio dato alla Chiesa nella persona del Sotto-segretario per migranti e rifugiati del Dicastero vaticano per il Servizio dello sviluppo umano integrale, il padre Michael Czerny, latore al Foro di un messaggio di Papa Francesco, un’autorità mondiale le cui parole a favore dei diritti dei migranti si alzano chiare e forti: “La trasformazione positiva delle nostre società, diceva  il messaggio, inizia dal rifiuto di tutte le ingiustizie che oggi trovano giustificazione nella ‘cultura dello scarto’, un’infermità ‘pandemica’ del mondo contemporaneo”. Il primo passo verso la giustizia sociale è dare voce ai ‘senza voce’, e “tra questi ci sono i migranti, i rifugiati e gli sfollati forzati, che sono ignorati, sfruttati, violati e abusati nel silenzio colpevole di molte persone”. E’ stato un riconoscere l’apporto della Chiesa non solo per una lettura corretta del fenomeno, ma anche per l’impegno di servizio ai migranti che, come è stato più volte sottolineato, sono persone, soggetto centrale del fenomeno e deve essere ascoltato nelle sue motivazioni e speranze, nelle sue aspettative e nella sua disponibilità. Dando voce al migrante come soggetto si farebbero emergere certe ipocrisie internazionali.

Per esempio, l’industria delle armi che lucra finanziando non solo le guerre che provocano migrazioni, ma anche vendendo gli strumenti di controllo delle frontiere contro i flussi migratori che hanno provocato. Il modello di Israele nel controllare i confini per tenere a bada i Palestinesi, diventa il modello a cui molte nazioni si ispirano. Le esportazioni globali di armi al Medio Oriente dal 2006-2016 hanno aumentato del 61%, per un valore di 82 miliardi di euro e, per i programmi di controllo delle frontiere, l’UE tra il 2004 e il 2020 sta spendendo 4,5 miliardi di euro. L’industria europea per la sicurezza delle frontiere è di fatto dominata dalle grandi industrie delle armi Aibus, Finmeccanica, Thales e Safran.  

Le multinazionali: con le attività minerarie, l’accaparramento di terre, l’appropriazione indebita di materie prime senza nemmeno pagare tasse, causano migrazioni e sfollamento. Un caso tipico si dà nel Mesoamerica. Con l’accordo del 2014 dei presidenti Peña e Obama, le imprese internazionali si sono installate nelle chiamate Zone Economiche Speciali finanziate dagli USA, hanno provocato l’esodo dei messicani e “accolto” gli immigrati honduregni, guatemaltechi e salvadoregni come mano d’opera a buon mercato, trasformandosi nella frontiera sud degli Stati Uniti. Trump minaccia di sospendere i finanziamenti a questa frontiera sud perché non sta funzionando. E’ lo stesso modello dell’Europa (e dell’Italia) che vorrebbero spostare a sud i propri confini facendoli corrispondere con la Libia e i paesi del Nord Africa. Esemplare, qui, l’accordo tra l’Unione Europea e la Turchia.

Le migrazioni sono sempre esistite, ma questa carovana riunisce gruppi di persone, povere e di diversa età, donne e bambini che, secondo alcune stime, vanno dalle 7.000-10.000 unità. E’ un esodo che coinvolge intere nazioni centroamericane (Honduras, Salvador, Nicaragua e Guatemala), intenzionate a raggiungere gli Stati Uniti, paese simbolo del capitalismo. Non è più un fatto congiunturale – queste migrazioni si davano da decine d’anni - bensì strutturale, ingigantito dalla crisi del capitalismo stesso: fermare questi flussi migratori è un mito utile solo ai populisti di turno per le loro illusorie promesse elettorali, trasformano il migrante in una merce di scambio e lo rende vittima del crimine organizzato, del traffico di persone e di gente che lo sfruttano a fini ideologici, politici e perfino economici.

      Molte organizzazioni della società civili lavorano a diverso livello per i diritti del migrante. Manca, in molti casi, la capacità di coordinare, fare rete e unire gli sforzi per esercitare una efficace advocacy presso i governi nazionali e le istituzioni internazionali. Un insieme di normative, inoltre, protegge certamente il rifugiato politico, un po’ meno gli esuli di massa a causa della guerra, però manca una struttura giuridica per le migrazioni economiche e dei cambiamenti climatici a livello locale e internazionale. Il Global Compact for Migration che l’ONU propone alla discussione e approvazione nell’ormai imminente incontro internazionale a Marrakesh (Marocco) il 10-11 dicembre, si autodefinisce nell’introduzione, un “accordo negoziato intergovernativo preparato sotto l’egida dell’ONU che copre tutte le dimensioni della migrazione internazionale in modo olistico e globale”. Nel FSMM se ne sono evidenziati gli aspetti positivi ma si sono levate anche voci critiche. A molti sembra uno sforzo per regolamentare il problema senza voler risolverne le cause. Non si vuole riconoscere l’affermazione di Giovanni Paolo II ripreso da papa Benedetto: se migrare è un diritto e accogliere il migrante un dovere, prima viene il diritto di rimanere e di ritornare dove uno vuole vivere, nella propria casa, sulla propria terra, nel proprio paese e prima viene il dovere di contribuire a che la propria famiglia, il proprio paese, progredisca in libertà.

Nel 1995 un lungo dossier de Le Monde Diplomatique metteva in guardia sullo slittamento in corso del “potere” dalla politica all’economia, che si completa oggi quando il potere dalla “politica” – la democrazia del popolo – è ormai passato alla finanza e alla finanza delle armi. Il Papa nel suo messaggio parlava di “una migrazione sicura, ordinata e regolare”, con proposte concrete all’insegna di quattro azioni: “accogliere, proteggere, promuovere e integrare”. Bisognerebbe forse aggiungere la necessità di assicurare il primo diritto, quello di non migrare, cioè, di restare, sentirsi al sicuro, progredire, essere se stessi. Senza questo diritto di base, le migrazioni forzate saranno sempre una violazione della dignità delle persone e l'Art. 13 della Dichiarazione sui Diritti Umani - (1) Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. (2) Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese - non sarà mai rispettato.

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